In onore alla prima di ‘ATTILA’ al StGaller Festspiele del 21.6.2013 pubblico l’intervista concessami da STEFANO PODA dopo ‘La Forza del Destino’ al Regio di Parma nel febbraio 2011 Sig Poda, anzi Architetto Poda, di norma quando si parla di architettura si suole pensare agli interni od agli esterni di un edificio, mentre nel suo caso ritengo sia più corretto parlare di spazi. Infatti, fin dal primo allestimento –Traviata- ad oggi si è sempre proposto in qualità di regista, scenografo, coreografo, costumista, leight designer, ovvero quale totale realizzatore dello spazio dell’opera, ad esclusione della parte musicale. In un’intervista alla televisione italiana, durante la recente rappresentazione di ‘Rigoletto’ a Padova, lei si è definito un artigiano, ma se mi permette una battuta, direi un ‘artigiano dal multiforme ingegno” …In realtà non ho mai saputo differenziare una professione dall’altra. Per me tutto ha a che vedere con tutto. Come nella vita. Ascolto la musica e la vedo, ne sento i sentimenti. Pertanto non potrei mai chiedere ad altri di realizzare ciò che vedo o sento. Mi sono fatto e formato a “modo mio”, fuori e lontano dal sistema, per cui non saprei neppure dire fino a che punto arriva la regia, la scenografia o la luce o meno la coreografia. Non sono uno regista/scenografo e neppure uno scenografo/regista. Ascolto la musica e cerco di darle corpo. Sin da bambino ho cercato di raccogliere maniere, forme, mestiere e manualità per riuscirvi. Per questo mi sento un artigiano. Così mi succede in sartoria quando cerco la forma del costume, taglio le stoffe, oppure le dipingo, le brucio, le sfilaccio per renderle materiche o scultoriche. Prima pensavo che bastasse dominare la drammaturgia o saper disegnare, poi mi son reso conto che non era neppure l’inizio, che bisognava saper operare direttamente sulla materia. Poi, e questo soprattutto in anni recenti, ho dovuto pure superare una certa sfida tecnologica, come per le luci. Ma la vera sfida consiste nel riuscire a trasmettere una forma di visione ad altre persone che poi la trasmettano al pubblico, ossia ai cantanti, ai danzatori, ai tecnici, ai realizzatori. E’ un metodo che mi sono creato da solo e che viene da lontano, che ha attraversato molte esperienze, molti Paesi, tante culture. Ogni esperienza, ogni incontro ha generato un piccolo “click”, una piccola-grande scoperta, capitale sul momento, relativa nel tempo. I passi sono stati lenti. Piccole conquiste che unite insieme marcano un cammino, una piccola evoluzione che è stato per me anche Werdengang. Prima è stato l’aspetto visivo, estetico, che però era innato e involontario, poi quello interno, quello sull’energia, che oggi è forse quello che più mi interessa perché è anche quello più misterioso, più ricco, più attraesnte. Per esempio è stato molto, molto importante la scoperta del Butho, ossia della “non-danza”. L’opera è un genere a sé, un genere per il quale mai si è elaborata una vera formula di espressione. Vi si è applicata prima la maniera del teatro di prosa, poi del cinema, ora quella del teatro di regia (che è pura intelligenza e con l’intelligenza tutto è possibile). Eppure nell’opera non si parla, ma si canta. Tutto viene spinto ad un grado di astrazione che non è quello della vita sveglia. La musica, alla maniera del sogno, libera le catena del corpo e della mente: porta all’inconscio. Non è problema di facile soluzione mettere in relazione il conscio e l’inconscio. Viene da pensare che in un’epoca molto distante o primitiva, senza il riflesso condizionato...
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